S. Antonio Abate

Sant' Antonio Abate
17 gennaio
Coma, Egitto, 250 ca. – Tebaide (Alto Egitto), 17 gennaio 356

Antonio abate è uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell'Egitto, intorno al 250, a vent'anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l'Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant'Atanasio, che contribuì a farne conoscere l'esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Conciliio di Nicea. Nell'iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore. (Avvenire)
Patronato: Eremiti, Monaci, Canestrai
Etimologia: Antonio = nato prima, o che fa fronte ai suoi avversari, dal greco
Emblema: Bastone pastorale, Maiale, Campana, Croce a T
Martirologio Romano: Memoria di sant’Antonio, abate, che, rimasto orfano, facendo suoi i precetti evangelici distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica; si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, e appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci.
   
da santi e beati.it
Caposcuola del Monachesimo
Dopo la pace costantiniana, il martirio cruento dei cristiani diventò molto raro. A questa forma eroica di santità dei primi tempi del cristianesimo, subentrò un cammino di santità professato da una nuovo stuolo di cristiani, desiderosi di una spiritualità più profonda, di appartenere solo a Dio e quindi di vivere soli nella contemplazione dei misteri divini.
Questo fu il grande movimento spirituale del Monachesimo, che avrà nei secoli successivi varie trasformazioni e modi di essere, dall’eremitaggio alla vita comunitaria. Espandendosi dall’Oriente all’Occidente, divenne la grande pianta spirituale su cui si è poggiata la Chiesa, insieme alla gerarchia apostolica.
Anche se probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, sant’Antonio ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu sant’Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse la biografia, fonte principale di ciò che sappiamo di lui.

La scelta di una vita penitente
Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto. Verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare.
Attratto dall’ammaestramento evangelico «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi», e sull’esempio di alcuni anacoreti che vivevano nei dintorni dei villaggi egiziani, in preghiera, povertà e castità, Antonio volle scegliere questa strada. Vendette dunque i suoi beni, affidò la sorella a una comunità di vergini e si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa e poi al di fuori del paese.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato. Vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva, si alzava e pregava; subito dopo, riprendeva a lavorare e di nuovo a pregare. Era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera che, due secoli dopo, avrebbe costituito la base della regola benedettina «Ora et labora» e del Monachesimo Occidentale.
Parte del suo lavoro gli serviva per procurarsi il cibo e parte la distribuiva ai poveri. Sant’Atanasio asserisce che pregasse continuamente e che fosse così attento alla lettura delle Scritture che la sua memoria sostituiva i libri.

Le sue tentazioni
Dopo qualche anno di questa esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove. Pensieri osceni lo tormentavano, l’assalivano dubbi sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici. L’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali, che aveva cercato di sopire in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese dunque aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui. Gli consigliarono anche di sbarazzarsi di tutti i legami e di ogni possesso materiale, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così, ricoperto appena da un rude panno, Antonio si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma. Un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane; per il resto, si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni. In più, attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale: lo superò perseverando nella fede, compiendo giorno per giorno la volontà di Dio, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò l’eremita chiese: «Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?». Si sentì rispondere: «Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…».

Sulle montagne del Pispir
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso. Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva: Antonio vi si trasferì nel 285 e vi rimase per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane. Seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto «per essere tentato dal diavolo». Era infatti comune convinzione che unicamente la solitudine, permettesse all’uomo di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così una nuova creatura.

Il discernimento degli spiriti
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti. Alcune finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio: veniva attaccato dal demonio, che lo svegliava nel cuore della notte, oppure gli dava consigli apparentemente per spronarlo a una maggiore perfezione, in realtà per spingerlo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria. L’eremita invece resistette e acquistò, con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, ossia la capacità di riconoscere le apparizioni false, comprese quelle che simulavano le presenze angeliche.

Le prime comunità di discepoli
Venne poi il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica giunsero al fortino e lo abbatterono. Antonio uscì e cominciò a consolare gli afflitti, ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume. Ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale. A tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito e l’unione con Dio.

Fuori dall’eremo per difendere i cristiani
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita sant’Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero: i due si scambiarono le loro esperienze sulla vita eremitica.
Nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo: si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede, desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato, ma le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana. Sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, sant’Atanasio, che combatteva l’eresia ariana. Scrisse in sua difesa anche una lettera all’ imperatore Costantino, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.

Nella Tebaide
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato. Andò dunque nel deserto della Tebaide, nell’Alto Egitto, dove prese a coltivare un piccolo orto per il sostentamento suo e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita. Poté seppellire il corpo dell’eremita san Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone; per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia. Morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.

L’eredità spirituale
La sua presenza aveva attirato anche nella Tebaide tante persone desiderose di una vita più spirituale. Tanti scelsero di seguire il suo stile: così fra quei monti sorsero monasteri. Il deserto si popolò di monaci, i primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente portarono avanti quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere. Nella Lettera 8, sant’Antonio scrisse ai suoi: «Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato».

La protezione contro l’herpes zoster
Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo e nello spazio, da Alessandria a Costantinopoli, fino ad arrivare in Francia, nell’XI secolo, a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore.
In questa chiesa affluivano a venerarne le reliquie folle di malati, soprattutto affetti da ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segale, usata per fare il pane.
Il morbo, oggi scientificamente noto come herpes zoster, era conosciuto sin dall’antichità come “ignis sacer” (“fuoco sacro”) per il bruciore che provocava. Per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e venne fondata una confraternita di religiosi, l’antico ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine de Viennois.

Il maiale, il fuoco, il “tau”
Il Papa accordò agli Antoniani il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade; nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento.
Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio”. Per questo motivo, nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla. Sempre per questa ragione, è invocato contro le malattie della pelle in genere.
Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino.
Una leggenda popolare, che collega i suoi attributi iconografici, narra che sant’Antonio si recò all’inferno, per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo. Mentre il suo maialino, sgattaiolato dentro, creava scompiglio fra i demoni, lui accese col fuoco infernale il suo bastone a forma di “tau” e lo portò fuori insieme al maialino recuperato: donò il fuoco all’umanità, accendendo una catasta di legna.

La devozione popolare
Nel giorno della sua memoria liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici. In alcuni paesi di origine celtica, sant’Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, Lug, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maialii. Perciò, in varie opere d’arte, ai suoi piedi c’è un cinghiale.
Patrono di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato, è anche il patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster.
Ancora oggi il 17 gennaio, specie nei paesi agricoli e nelle cascine, si usano accendere i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di sant’Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri, poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e, tramite un’apposita campana fatta con listelli di legno, per asciugare i panni umidi.
Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo. Lo stesso sant’Antonio di Padova, proprio per indicare il suo desiderio di maggior perfezione, scelse di cambiare il nome di Battesimo con il suo. Nell’Italia Meridionale, per distinguerlo da lui, l’eremita della Tebaide è infatti chiamato “Sant’Antuono”.







Le tradizioni di Sant'Antonio Abate








Article, Testimonianze del culto di sant'Antonio Abate tra Valsesia, Cusio e Ossola, Pomi, Damiano, Interlinea
Testimonianze del culto di sant'Antonio Abate tra Valsesia, Cusio e Ossola
2016 - Interlinea

Sant’Antonio Abate in diocesi di Novara


CHIESA PARROCCHIALE DI SANT’ANTONIO ABATE – TOCENO
Il piccolo centro di Toceno, in Valle Vigezzo, fu protagonista nel XVI secolo di un’importante crescita demografica e urbanistica, tanto da richiedere l’istituzione di una parrocchia autonoma.
Inizialmente il luogo di culto principale del centro vigezzino fu l’Oratorio di Sant’Antonio da Padova, ma presto si rese necessaria la costruzione della Chiesa Parrocchiale di Sant’Antonio Abate, edificata nel 1600 nella piazza centrale del paese.
L’edificio fu coinvolto da importanti lavori di ampliamento fino al 1806, la sua consacrazione avvenne solo nel 1824.
Internamente la chiesa è in stile neoclassico, gli affreschi sulle pareti del presbiterio sono opera del pittore vigezzino Lorenzo Peretti e raffigurano la Nascita di Gesù e l’Adorazione dei Magi.
La Chiesa di Sant’Antonio Abate è affiancata da un massiccio campanile sormontato dallo stemma di Toceno, con incisa la data 1607, anno in cui fu edificata la torre campanaria.
Il 17 gennaio, festa del Santo Patrono, Toceno rivive ogni anno una antica tradizione legata proprio al culto di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domesticiallevatori e pastori della Valle Vigezzo giungono in processione davanti alla chiesa per la benedizione dei propri animali prima dell’inizio della lunga stagione in alpeggio.
Info: www.circuitodeisanti.it

S.Antonio Abate e l'allevamento in Ossola

allevamento 3
Per la Chiesa Cattolica, è l’eremita che  strappa le anime al diavolo e i peccatori dal fuoco infernale. E’ festeggiato in tutta Italia da Nord a Sud, visse centenario nel suo eremo solitario a stretto contatto con la natura e gli animali dei quali è considerato protettore e in suo onore sono accesi propiziatori falò per augurare agli allevatori una stagione ricca di soddisfazioni.
Di S. Antonio Abate se n’è celebrata la festa anche quest’anno lo scorso 17 gennaio, ma sono ormai poche le località ossolane che ricordano l’anacoreta egiziano, chiedono protezione per le greggi e gli altri animali di cui è difensore e benedicono in suo onore il pane, una volta condiviso con le bestie allevate. L’ormai passata festa di quest’anno ci impone, però, di fare il punto sulle fattorie italiane, in particolare su quelle ossolane, e mi offre l’occasione per riprendere il contatto con i lettori di Ossola Rurale ai quali chiedo scusa se da qualche tempo non pubblicavo più “riflessioni agresti” sulla rivista on line.
La “Fattoria Italia” purtroppo sta svanendo. Lungo tutta la dorsale alpina e quella appenninica, gli allevamenti, soprattutto quelli più piccoli a gestione familiare, stanno scomparendo. I dati di settore che arrivano dagli ultimi censimenti, dicono che in Italia negli ultimi dieci anni sono scomparsi quasi due milioni di animali tra mucche, capre, pecore e maiali. Animali questi che eravamo soliti incontrare negli alpeggi durante le camminate escursionistiche compiute sulle dorsali delle valli ossolane. Si salvano, fortunatamente, gli allevamenti intensivi della pianura e quelli montani in grado di far nascere prodotti di qualità, il Bettematt per esempio, molto richiesti dal mercato.
E come spesso accade, è proprio la montagna a essere maggiormente penalizzata rispetto al trend negativo che ha investito la penisola. La montagna, cioè quel territorio marginale che tutti a parole promettono di aiutare ma che poi, ogni volta che escono dati specifici sulle produzioni alpestri e questi sono ritrovati con segno negativo, mostra evidenti i sintomi di un aiuto concreto venuto meno. E sono soprattutto le aree interne più complesse, quelle dove l’asperità del territorio e le difficoltà di operare seguendo i moderni criteri autorizzativi rendono tutto più difficile, a essere maggiormente penalizzate. Mancano le condizioni economiche, sociali e strutturali minime affinché si possa garantire la sussistenza ai nostri allevatori e la ripresa di un settore un tempo fiore all’occhiello delle vallate alpine.
La scomparsa delle fattorie familiari, che non riguarda solo ovini e bovini ma tutta una serie di altri animali allevati per passione e per necessità (asini, galline, conigli, tacchini, pavoni …) ha favorito la perdita se non addirittura fatto rischiare l’estinzione a numerose razze di animali d'allevamento un tempo presenti nelle nostre vallate. Una straordinaria biodiversità che caratterizzava il territorio ossolano.
Un dossier curato dal quotidiano La Stampa afferma che in Italia sono oltre centotrenta le razze di animali d’allevamento a rischio estinzione. E Coldiretti, l’associazione più rappresentativa del mondo agricolo nazionale, nel prendere coscienza dei dati negativi analizzati, per bocca del suo presidente ringrazia gli allevatori italiani per il paziente lavoro ancora in grado di garantire una straordinaria biodiversità agli allevamenti nazionali salvando dalla scomparsa molte di quelle specie un tempo largamente diffuse sul territorio.
Che cosa può fare l’Ossola per continuare a sorreggere se non addirittura incrementare il settore dell’allevamento? Intanto un’azione di recupero delle numerose aree non ancora inselvatichite su cui è possibile far crescere degli allevamenti atti a sostenere le richieste commerciali dei prodotti di nicchia in grado di attrarre il consumatore. Favorire poi il ritorno di quelle varietà di pecore, capre, bovini e maiali un tempo presenti sul territorio che per adattarsi alle moderne forme di allevamento e distribuzione dei prodotti non sono sopravvissute. Creare inoltre una rete di punti vendita distribuiti capillarmente sul territorio dove sia possibile recuperare i prodotti “nostrani”, provenienti cioè dalle “botteghe” dei nostri allevatori, e distribuire quelle derrate alimentari che seppur in scala ridotta ridanno ossigeno all’Ossola agricola.
Occorre infine prendere coscienza che quando un alpeggio viene abbandonato o una stalla chiude, non si perde soltanto qualche animale o il prodotto tipico che era in grado di produrre, ma si vede inselvatichire una parte di territorio e vanificare gli sforzi messi in atto per combattere lo spopolamento alpino e conservare quel sapere antico frutto dell’esperienza d’intere generazioni. Analogo discorso andrebbe fatto per le varietà vegetali; frutta, verdura, erbe selvatiche e legumi di cui si stanno perdendo i semi autoctoni. Questo però è un altro discorso e merita un successivo approfondimento …
Pier Franco Midali – 21 gennaio 2019

Oratorio di Sant' Antonio Abate (Sec. XVII)

La devozione a S. Antonio Abate è molto diffusa in tutta l'Ossola e generalmente molto antica. Il Santo era invocato per la protezione degli uomini e degli animali da ogni tipo di pestilenza e soprattutto da certe malattie dolorose come l'herpes zoster detto anche "fuoco di S. Antonio", dall'afta epizootica che imperversò nelle regioni ossolane nel secolo XIII decimando tutto il prezioso patrimonio zootecnico e, quindi, temutissima anche in seguito, dagli incendi delle case di abitazione e delle stalle e in genere da ogni influenza diabolica (diabolicus incursus), giacché, alla fine, tutte queste calamità erano attribuite ad influenze del demonio. Al medesimo si facevano risalire anche le tentazioni di ogni genere di cui S. Antonio abate fu sempre vincitore. Per questi motivi il Santo si trova spesso associato ad altri con uguali funzioni protettive: S. Bartolomeo, S. Sebastiano, S. Rocco e, naturalmente, la B.Vergine delle Grazie.
A Nava esisteva anticamente una edicola dedicata a S. Antonio abate, nucleo del piccolo Oratorio sorto in seguito. Gli uomini di Montecrestese avevano infatti in un tempo di gravi difficoltà pubbliche fatto il voto di celebrare come festiva la ricorrenza del Santo il 17 Gennaio di ogni anno. Compare infatti nell'elenco delle feste imposte dagli Statuti del 1530 ed in altri seguenti (1).
Dell'antico Oratorio si ha un primo documento scritto negli Atti di Visita pastorale di mons. Romolo Archinto del 1582, il quale però si limita solo a notarne l'esistenza (2).
Poiché il Sinodo di mons. Spedano (1591) non ne accenna, è lecito pensare che questo Oratorio o cappella fosse veramente piccola cosa e non in grado di ospitare decentemente le celebrazioni liturgiche. Questa situazione deve essere durata inoltre ancora per molto tempo se neppure i vescovi successivi, dal Bascapè a mons. Pietro Volpi, cioè fino al 1627, non lo ricordano nelle Visite pastorali. E' solo dopo il 1630, in seguito alla pestilenza che ha imperversato in Ossola in quell'anno e ad un voto fatto dai frazionisti di Nava per esserne liberati, che il decrepito Oratorio venne riprogettato e lentamente assunse la forma attuale.
Il lavoro di costruzione iniziò nel 1638 e continuò negli anni seguenti. Sorse inizialmente la cappella principale del presbiterio. Per questa il pittore fiorentino Luigi Reali dipinse nel 1640 la pala dell'altare rappresentandovi la B. Vergine delle Grazie, in alto, ed in basso S. Antonio abate e S. Sebastiano. Il quadro è infatti siglato e datato con la scritta: L.R. pingebat 1640. Il Visitatore pastorale del 1641 trova l'Oratorio ancora incompleto: le pareti sono rustiche, manca la balaustra, le finestre sono prive di vetri; nota però la bella ancona sopra l'altare e il campanile sopra la porta.
Essendo poi fornito delle necessario suppellettili, vi si celebrava saltuariamente (3).
Mons. G.B. Visconti lo visitò personalmente nel 1690 rilevandone l'ottimo assetto (4) e così pure il Visitatore pastorale del 1717 che vi nota la balaustra in marmo, il crocefisso sull'archi- trave del presbiterio, la sacrestia, il campaniletto sempre in cima al frontespizio ed il piccolo sagrato recintato e lastricato di piode. Il parroco vi celebrava una volta al mese e, solennemente, nella festa del titolare il 17 Gennaio di ogni anno (5).
Tratto da:
Storia di Montecrestese di Tullio Bettamini - Edizione di Oscellana
(Domodossola 1991)

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